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Inquinamento acustico in condominio: se il rumore è un inquilino di troppo

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Le città italiane, e di conseguenza anche i condomini, sono gravati da inquinamento acustico. Ci sono condomini rumorosi a tal punto che assomigliano a una banda specializzata in cacofonia: al primo piano abbaia il cane, al secondo litigano lui e lei, al terzo un neonato strilla ogni notte, al quarto un teenager non rinuncia alla musica hip-hop, suonata a palla. Senza contare che ai rumori indesiderati che passano attraverso le pareti del condominio si aggiungono in alcuni casi le intemperanze della movida: bar rumorosi, passanti che parlano ad alta voce, traffico da Gran Premio di F1. Risultato: stress e, spesso, conflitti infiniti. Che, qualche volta, si trasferiscono nelle aule dei tribunali.

«Peccato che il 90% delle case non rispetti i parametri minimi di legge e sia molto più esposta ai rumori di quanto sia sostenibile», commenta Giorgio Campolongo, ingegnere e consulente di acustica. «E il disagio non riguarda solo gli effetti indesiderati della movida, ma anche i suoni fastidiosi che passano attraverso i muri interni. Anzi, spesso l’insonorizzazione verso l’esterno, con vetri fonoassorbenti e pannelli antirumore esalta, paradossalmente, l’inquinamento acustico interno all’edificio. I decibel di troppo non sono facili da eliminare», aggiunge il professionista.

La scarsa capacità degli edifici di filtrare i rumori, in contrasto con la soglia stabilita dal Dcpm 447 del 1995, è uno dei problemi più sottovalutati al momento dell’acquisto di un immobile, ma si rivela poi tra gli aspetti più importanti per la vita di chi ci abita. Una cattiva insonorizzazione può essere fonte di disagi e spingere a contenziosi sia nei confronti del costruttore che del venditore. La via legale è prevista anche se il rogito è sottoscritto tra semplici cittadini privati.

«Sarebbe meglio controllare la rumorosità di un’abitazione prima dell’acquisto, magari con l’ausilio di strumenti adatti, ma non sempre è possibile», sospira Campolongo. «In ogni caso, è necessario stabilire se la propagazione del rumore dipende da difetti strutturali all’edificio, oppure se sia causato dall’attività di terzi e, infine, se supera la normale soglia di tollerabilità stabilita dall’articolo 844 del Codice civile». E qui arriva il bello (o, meglio, il brutto), perché i contenziosi portano di solito a un aumento dei decibel nelle stanze dei tribunali, con procedimenti che durano anni: quando il proprietario di un appartamento non sopporta un suono che supera i limiti consentiti, chiede rimedio all’avvocato. Il professionista, per prima cosa, pretende l’eliminazione del «vizio», cioè il risarcimento del danno e, in alcuni casi, la risoluzione del contratto di vendita per inadempimento.

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Ma chi paga? Se l’accertamento del danno da parte del tribunale è testimoniato da una perizia, segue la successiva correzione del problema. Ma a caro prezzo: per esempio, a volte è necessario intervenire con la ristrutturazione di pareti troppo leggere a cui si aggiunge materiale fonoassorbente. Secondo l’articolo 1668 del Codice civile, dovrebbe essere il costruttore a pagare e attuare i lavori che dotino l’immobile di un sufficiente isolamento acustico. Non solo: se i lavori di adeguamento sono impegnativi, la relativa durata va conteggiata assieme al periodo durante il quale si è subito il rumore eccessivo. E anche questo porta a un risarcimento del danno da disagio abitativo, a causa del ridotto godimento del bene (sentenza n. 1281/2011 della Corte d’appello di Bologna). Non c’è bisogno di spiegare perché questo approccio sia contestato dall’Ance e dalle imprese costruttrici.

«Ma la legge parla chiaro, il proprietario dell’immobile ha diritto che la soglia di rumore resti entro i limiti previsti. Se così non è, può ottenere la riparazione del danno», ribatte Mario Battaglia, avvocato dello studio Danovi di Milano. A qualsiasi costo, sostiene il professionista. Per esempio, anche se non è possibile rimuovere il difetto strutturale che dà origine al rumore (come nel caso di solai tra piani destinati alla residenza). In questo caso il privato, secondo il professionista, può chiedere la riduzione del prezzo di acquisto dell’immobile, che in alcune pronunce arriva al 20% (sentenza del Tribunale di Torino n. 2715/2007). Se, poi, il problema rende un appartamento totalmente inadatto all’abitazione, si può chiedere la risoluzione del contratto, con restituzione degli importi e anche il risarcimento del danno.

Ma i costruttori non ci stanno. Intanto, perché allo stato attuale la certificazione acustica è qualcosa di vago: non è obbligatoria, se non in quelle poche città che hanno inserito nel proprio regolamento la verifica del livello di fonoassorbenza passiva per la concessione dell’agibilità. In tutti gli altri casi è obbligatorio solo uno studio previsionale dell’isolamento acustico, ai fini del rilascio del permesso di costruzione. E spesso, i criteri di valutazione sono piuttosto soft. Anche perché molti
preferiscono dribblare il problema sottoscrivendo specifiche polizze di assicurazione decennale (obbligatorie per la legge 122/2005).

Contratti che coprono i difetti costruttivi (uso di materiali o tecniche inadeguate), compreso il problema dell’abbattimento dei decibel. L’azione giudiziaria nei confronti del costruttore si prescrive in dieci anni, ma all’interno di questo periodo di tempo la lite deve essere avviata entro un anno da quando il vizio (l’eccessivo rumore) è stato rilevato o denunciato (secondo gli articoli 4 della legge 122/05 e 1669, Codice civile). «La legge, così com’è, è troppo onerosa», ribatte un costruttore, che preferisce rimanere anonimo. «L’incremento di costo di realizzazione per rispondere ai valori del Dpcm in uno stabile realizzato con tecniche correnti si aggira sul 10%». Per questo l’Ance sostiene che l’ultima parola in materia di regolamentazione sui requisiti acustici debba essere demandata alle Regioni.

La questione è intricata, ma vale la pena di (tentare) di capirci di più. Una direttiva europea del 2009 sembrava aver concesso ai costruttori un salvacondotto retroattivo. Ma nel maggio scorso la Corte costituzionale (sentenza n.103) ha dichiarato illegittimo l’articolo 15, comma 1, della legge comunitaria 2009. In sostanza, è stata respinta la norma che neutralizzava retroattivamente nei rapporti tra privati la conformità degli edifici ai requisiti previsti dalla normativa anti-rumore. L’azzeramento della rilevanza dei requisiti tra privati era stata stabilita solo per il futuro (articolo 11 della legge comunitaria del 2008), ma successivamente era stata estesa a ritroso la non applicabilità ai privati. In pratica, con la normativa del 2009, sembrava non più possibile pretendere dai costruttori il rispetto dei requisiti acustici. La Consulta, invece, ha dichiarato non corretta questa versione.

Polemiche concluse? Macché: il volume della discussione in materia si fa sempre più alto.

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